Perché il problema delle donne in Giappone è difficile da risolvere
Nel tentativo di portare più lavoratori nella ristretta economia giapponese, il primo ministro Shinzo Abe ha delineato gli obiettivi per creare un "Giappone in cui le donne risplendono", noto anche come "Womenomics". Bloomberg QuickTake spiega perché il governo affronta ancora seri pregiudizi di genere che escludono le donne dal lavoro.
Per la fine del 2020, Shinzo Abe vuole che il 30% delle posizioni di leadership sia occupata da donne. Con questo obiettivo, sta spingendo le più grandi aziende giapponesi ad assumere donne in posizioni manageriali ed esecutive. Allo stesso tempo sta rafforzando l’aspetto della conciliazione cura - lavoro in modo che le donne si sentano più libere dagli impegni familiari e dalla cura dei figli e possano dedicarsi maggiormente all’ambito lavorativo.
Tutto ciò sembra funzionare: tra il 2012 e il 2017 il tasso di partecipazione lavorativa femminile è salito dal 46,2% al 49,8%. Le donne che hanno preso parte alla forza lavoro lavorano in condizioni di paga inferiore rispetto agli uomini e con contratti part-time. Rimangono inoltre forti pregiudizi culturali che mettono le donne in posizione di inferiorità rispetto agli uomini; ci si aspetta infatti che le donne si occupino della cura della casa e dei figli e tale credenza, mentre è stata sradicata nel resto del mondo, rimane piuttosto forte in Giappone.
Il Giappone ha il terzo divario retributivo di genere più alto tra i paesi sviluppati secondo OECD. Anche se molte aziende, tra cui la Toyota, hanno subito aderito al cambiamento offrendo ruoli esecutivi a donne, il processo sarà molto lungo. Inoltre in Giappone solo il 10% della Camera Bassa è formato da donne; si tratta di un punteggio molto basso rispetto agli altri paesi del mondo che mostrano una più alta percentuale di donne in posizioni governative. Secondo le stime, la parità di genere potrebbe avere un impatto più che positivo sul GDP giapponese.